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29 ottobre 2015

RAGIONE, SENTIMENTO E LUCRO
Storia di un paradosso

Pochi giorni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha diramato i risultati di lunghi studi scientifici, fra i quali ha destato particolare scalpore la conclusione che le carni conservate (wurstel, salumi, etc.) siano certamente cancerogene, cioè classificate al livello 1, insieme alle sigarette. I prodotti a tale livello si distinguono da quelli del gruppo 2A, poiché mentre i primi sono “certamente” cancerogeni, gli ultimi “probabilmente” lo sono.
Il sasso è stato gettato nello stagno, e attorno sono partite le onde concentriche; in particolare si è verificata una preoccupazione diffusa da parte dei consumatori verso quegli “alimenti”, e, dall’altro lato, c’è stata una levata di scudi a favore di tali prodotti. Qualcuno, però, si è accorto del paradosso. Generalizzando, come va tanto di moda in questi tempi post-tutto, si può dire che “i vegani lo sapevano già”: in realtà, chiunque privo di particolari pregiudizi si fosse accostato alla materia ne aveva già completa consapevolezza.
Personalmente ho trovato molto interessanti queste informazioni, reperite già alcuni anni fa presso il sito ufficiale dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC).

IL PRIMO PARADOSSO: NESSUNA SCOPERTA
L’AIRC sapeva, e l’OMS no? Incredibile a dirsi. Eppure c’è uno sfasamento temporale di anni, e possiamo ben intuire che l’AIRC non fosse l’unico ente a conoscenza di questi dati, né tantomeno l’unico ad averli diffusi.
Insomma, la notizia che avrebbe dovuto far scalpore è quella che l’OMS abbia impiegato tanto a rendere pubblici studi che erano già inequivoci e consolidati da lungo tempo.
Al contrario, l’opinione pubblica sembra essersi destata di colpo: finchè i dati ci sono, e stanno lì, senza che se ne parli, in fondo è come se non ci fossero. La nostra cultura non considera realmente i fatti che non sono pubblicati in pompa magna attraverso televisione e media in generale, ma quando si confronta con notizie ufficializzate dal mezzo di diffusione, è in grado di credere a tutto. O anche di rifiutare tutto. E questo porta al secondo paradosso.

IL SECONDO PARADOSSO: IL NEGAZIONISMO DISINTERESSATO
Dal primo al secondo paradosso, il passo è breve: in realtà la maggior parte delle nostre abitudini più radicate sono a-logiche e irrazionali. Non sono, cioè, frutto di scelte maturate dal raffronto tra idee o soluzioni contrapposte, bensì mero abbandono a capricci, desideri, piaceri o tradizioni inculcateci da altri. Pertanto, se le scelte basate su ragionamenti sono appunto aperte a nuovi ragionamenti e a essere messe in discussione, quelle aprioristiche non accettano ragioni, quindi sono refrattarie a qualsiasi ragione.
Per questo motivo un’altra reazione, diametralmente opposta alle preoccupazioni di alcuni, è stata non soltanto di ostentata indifferenza, ma addirittura di aperto malcontento e perfino di disprezzo. Naturalmente, non avendo natura logica, queste argomentazioni per lo più si risolvono in congetture o luoghi comuni, quali “a sentire loro fa tutto male”, “meglio ammalarsi che vivere privandosi della carne”, “di qualcosa si deve pur morire”, “non sanno più che inventarsi”, “tanto anche la frutta è inquinata”, etc.
           
IL TERZO PARADOSSO: IL NEGAZIONISMO INTERESSATO
Mentre alcuni, ragionando per sé, hanno spontaneamente decretato che le fonti non sono attendibili, così da potersi assolvere nel perseverare nelle proprie abitudini, altri hanno pubblicamente assunto posizioni negazioniste.
In particolare spiccano i commenti di produttori e venditori di carne e dei politici: tutti accomunati da rassicurazioni, minimizzazioni o vere e proprie negazioni.
In realtà i contenuti di questi interventi rappresentano un paradosso soltanto apparente: il vero paradosso è per quale motivo sia stata data loro voce o addirittura autorità, e perché qualcuno gli creda.
Qualcuno che fonda la sua vita, il suo profitto e la sua immagine su qualcosa non potrà mai ammettere che quel qualcosa sia profondamente sbagliato. È istinto di sopravvivenza. Chi si aspetta che possa far capolino una qualche morale è fuori luogo, poiché la morale non ha diritto di cittadinanza in questa sede. “Dovrebbe averne!”, tuonerà qualcuno; ma, cionondimeno, così funziona, e non possiamo che dolercene (cit. Catullo).
I politici, d’altro canto, non possono che fare il proprio mestiere, che è tutelare l’economia. Non la società, né le persone. L’economia, sia chiaro. Perché la sopravvivenza del sistema deve essere anteposta a quella dei singoli individui, e chi governa è garante di quel sistema, quindi ne è dipendente. Per lo stesso motivo per cui chi vende carne non ammetterà mai che faccia male (salvo che trovi impiego in altro settore), chi governa non ammetterà mai che una parte rilevante dell’economia si basi sul danno dei consociati: in entrambi i casi c’è di mezzo il posto di lavoro.
Merita una menzione a parte il negazionismo della stessa OMS, che, cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, si guarda bene dall’esprimere l’auspicio di una dieta vegana o fruttariana, e, al contrario, nello stesso rapporto suggerisce di consumare carne consapevolmente in ragione dei nutrienti ivi contenuti. Incredibilmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità pare ignorare che i vegetali contengono quelle medesime sostanze, ma senza il frutto avvelenato della carne.

IL QUARTO PARADOSSO: L’INDIFFERENZA DI ALCUNI VEGANI
Mentre molti attivisti per i diritti animali in generale e/o vegani hanno immediatamente accolto come una manna la diffusione dei dati dell’OMS, altri hanno manifestato fastidio per come la notizia avrebbe spostato l’attenzione dal problema della sofferenza e dello sfruttamento a quello della salute (umana). La doglianza, apparentemente paradossale, consiste nel rivendicare il ruolo preminente dell’etica nel rapportarsi agli animali non umani.
Se, visto “dall’esterno”, questo argomento può sembrare di poco conto, è tuttavia fondamentale precisare che la questione etica ha una rilevanza tale da renderla preliminare a tutto il resto: non ci chiediamo se uccidere un altro essere umano ci rechi vantaggio, poiché lo riteniamo moralmente riprovevole. Allo stesso modo, dunque, professare il diritto alla vita degli animali non umani, al pari di quelli umani, per poi anteporre la propria salute, sembrerebbe incoerente.

TUTTI SCONTENTI?
Insomma, questo annuncio dell’OMS pare aver fatto la felicità soltanto dei giornalisti: alcuni dei quali hanno potuto fare grandi titoli, mentre altri hanno potuto vendere ottimi spazi pubblicitari, eventualmente mascherati da informazioni scientifiche.
Sembrerebbe una pietra miliare per gli attivisti dei diritti animali. Ma, in primo luogo, è un’occasione di consapevolezza. Per tutti.
La prima consapevolezza riguarda i diritti fondamentali della persona, in particolare la salute: per troppo tempo si è taciuta una verità scientificamente conclamata, o non le si è data la notorietà che meritava. Adesso le persone sono un po’ più libere di scegliere. E qui sta anche la vittoria dei vegani: sì, perché è vero che la questione etica è fondamentale, ma è altresì vero che di fronte allo stato di necessità le leggi morali cedono il passo all’istinto di sopravvivenza. Inoltre una morale che non tiene conto dei principi di necessità o di natura, non può considerarsi efficace: se la natura realmente ci avesse predisposti a mangiare carne, oppure se senza farlo morissimo o ci ammalassimo, potrebbero ben trovare cittadinanza alcune delle più diffuse critiche all’alimentazione vegana (o vegetariana, o fruttariana).
Il problema è che, mentre alcuni, informati, sanno che mangiare derivati animali non serve (ed è dannoso), altri addirittura rifiutano perfino di prendere in considerazione tale ipotesi, poiché assolutamente convinti della necessità, in ciò rassicurati da una scienza ottusa, male informata o non disinteressata.
Eliminare l’esimente dello stato di necessità dalle menti delle persone significa renderle intellettualmente disponibili a cambiare.
Ma la consapevolezza acquisita non è soltanto legata al settore di interesse: si estende alla politica e all’economia, che sono accomunate da molti profili, in primis quello di essere nati come strumenti volti a tutelare e migliorare la società, ed essersi ritorti contro di essa, divenendone parassiti dal volto buono, ma costantemente volti a nutrirsi degli “ospiti”, assicurandosi che essi vivano bene quel tanto che basta a rimpinguarli senza accorgersi del loro reale ruolo.
           
RIFLESSIONE E AZIONE
A questo punto cosa rimane da fare? Andare avanti. E in profondità.
Se la carne fa male, se chi la vende, chi governa, e perfino chi lo denuncia cerca di minimizzare (vd. OMS che sostiene l’utilità dei nutrienti della carne), ci si prospetta un’eccezionale opportunità di comprendere il funzionamento parassitario del sistema che alimentiamo quotidianamente, e realizzare che non occorre attendere le risposte dei politici né tantomeno degli industriali, e che la soluzione del problema presuppone un approccio molto più ampio di così. Il problema non è se consumare carne o meno, se rispettare gli animali non umani o meno, o se confidare nella politica o meno: il problema è capire che il cambiamento individuale è l’unica arma, ma anche il sommo fine che ciascuno di noi può porsi.
Maggiore consapevolezza significa maggiore libertà e chi vuole manipolare le informazioni o limitarle ha un eccezionale interesse in gioco: mantenere il controllo. Controllo che noi gli abbiamo dato e che soltanto noi possiamo riprenderci.

   

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