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1. I pregiudizi nella formazione del diritto
La lotta per l’affermazione dei diritti parte sempre dal più forte e, spesso, pecca nella prospettiva di partenza, dimostrando di considerare con antagonismo tutti i gruppi differenti dal proprio e, quindi, di ritenere che gli interessi di ciascuno di essi siano in conflitto con quelli degli altri.

La storia ha insegnato che qualsiasi conflitto determina un danno e che, pertanto, l’imposizione degli interessi di uno o di alcuni ad altri è soltanto apparentemente vantaggiosa: in realtà allorchè un gruppo si arroga un diritto superiore a quello di altri gruppi, già nell’affermazione del principio vi è il seme del danno, consistente nell’aver avallato e perpetuato l’ideale che interessi egoistici possano essere legittimamente coltivati.

Dal momento in cui un gruppo, o una specie, o una nazione, si persuade che sia giusto affermarsi e prevalere su quelli che considera “altri da sé”, apre la porta alle infinite interpretazioni soggettive di ciò che è “altro”, nonché alla erronea persuasione che si possa avvantaggiare uno danneggiando l’altro.
La liberazione animale rappresenta un momento essenziale e inderogabile nel viaggio dell’umanità verso il diritto e verso ciò che è giusto: come si potrebbe, infatti, definire “giusta” una società che sfrutta e tormenta proprio i più deboli, indifesi e incolpevoli?

La congettura alla base del diffuso motto “aiutiamo prima gli umani” esemplifica perfettamente l’errore nell’approccio mentale al rapporto con tutto ciò che ci circonda: non si può essere altruisti selettivamente o, se si preferisce, selettivamente egoisti.
Scegliere di aiutare soltanto chi si riconosce come proprio “simile” non manifesta altruismo, bensì soltanto una sorta di egoismo allargato: non può pertanto esistere una giustizia che contempli soltanto i diritti degli umani, o degli occidentali, o degli animali.

L’unica vera forma di giustizia universale è quella che tende all’equilibrio di tutto ciò che compone il sistema in cui essa viene applicata: avvantaggiare gli esponenti di una specie, di una razza, di una cultura o di un sesso non può rappresentare alcuna giustizia, ma soltanto l’estrinsecazione di pregiudizi egoistici.

Come si può definire civile o giusta una società che ha bisogno di trovare analogie e somiglianze per poter affermare il diritto? Questa mentalità, purtroppo, spinge ad un passaggio obbligato: prima di poter tutelare un gruppo occorre infatti legittimarlo, assimilandolo a quello dominante (e legiferante).
Anche per tutelare gli animali non umani si è fatto leva sul loro sentire, paragonandolo al nostro: poiché essi soffrono come noi – si è detto – sono meritevoli di tutela. Ma questa affermazione è molto pericolosa, poiché contiene in sé il suo opposto: quelli che non soffrono (o che noi non riteniamo o comprendiamo soffrire) come noi non sarebbero meritevoli di alcuna tutela.

Il vero rispetto, quale manifestazione disinteressata e oggettiva, si contraddistingue per il fatto di essere riconosciuto incondizionatamente e a prescindere dal punto di vista dell’osservatore: le diversità fra soggetti, siano esse formali o sostanziali, possono servire soltanto a determinare le modalità concrete di condotta rispettosa delle specificità di ciascuno.

 
2. Il paradosso del brodo primordiale
Il paradosso del brodo primordiale consente di comprendere meglio quanto sopra: prima di essere “vita”, gli elementi essenziali che la compongono erano “non vita” e, aggregatisi in un brodo primordiale, avrebbero interagito fra di loro fino al momento della fatidica scintilla: secondo le teorie biocentriche, dunque, questo agglomerato di molecole avrebbe potuto godere di diritti soltanto dopo che la scintilla era scoccata, ma non un attimo prima. Il paradosso è evidente: se quel brodo primordiale inanimato non avesse goduto di alcun diritto, allora qualunque forma di vita (ad esempio un creatura aliena) avrebbe potuto disporne liberamente, perfino distruggendolo e, dunque, precludendo in radice lo sviluppo della vita sulla Terra.

Sarebbe insomma ravvisabile una aspettativa da parte di ciò che esiste, pur non essendo classificato come “vivo” in base alle nostre cognizioni scientifiche, ma passibile di diventarlo e, comunque, meritevole di tutela in quanto compartecipe della realtà fenomenica, tanto quanto piante, animali non umani e umani.
Se, per esempio, il sistema Terra per esistere presuppone l’esistenza e la compartecipazione di elementi vitali e non vitali (o presuntivamente tali in base a cognizioni scientifiche umane contemporanee limitate e parziali), è evidente che il corretto funzionamento di tale sistema presuppone il perseguimento dell’equilibrio tra tutti i suoi elementi e non già lo svilimento di uno o di alcuni a vantaggio di altri.

E’ quindi possibile affermare che l’unico metodo in grado di superare i particolarismi e i pregiudizi dettati dall’adozione di una prospettiva soggettiva è quello di riconoscere, per principio, la titolarità di diritti in capo a tutto ciò che esiste, garantendo un rispetto incondizionato e astenendosi dall’operare distinzioni che nascono dall’empatia o dalla simpatia o dall’affezione verso ciò che è più simile o vicino all’osservatore.
Naturalmente a condizioni differenti corrispondono esigenze, e dunque diritti differenti: non avrebbe infatti alcun senso paragonare i diritti di un essere umano con quelli di una pietra, ma escludendo questi ultimi si ricadrebbe nel paradosso di cui sopra e in una forma di giustizia basata sul fondamentale arbitrio dell’osservatore, auto arrogantesi il diritto esclusivo di determinare quali enti siano passibili di rispetto e quali no.
Ciò che noi definiamo vivo, per esistere e funzionare si fonda su ciò che, invece, consideriamo non vivo: in questa accezione, dunque, il rispetto dovuto a tutto ciò che esiste rappresenterebbe comunque il corollario dei diritti propugnati dalle teorie biocentriche e sarebbe necessario in quanto strumentale al diritto stesso alla vita.

Insomma, anche a voler negare la titolarità di diritti in capo a ciò che, pur esistendo, non consideriamo “vivo”, saremmo comunque costretti a riconoscergli rispetto in quanto strumentale rispetto agli esseri viventi.

In conclusione, sia che si intenda adottare una teoria dei doveri diretti nei confronti di ciò che esiste, sia che si adoperi il principio dei doveri indiretti, una cosa è certa: è necessario rispettare tutto ciò che esiste.

3. Oltre l’umanismo, l’animalismo, il biocentrismo: l’Eusebismo
Gli antichi greci adoperavano il termine "eusebeia" per definire un senso di rispetto di eccezionale ampiezza, come attestato dall’uso dei due vocaboli che lo compongono, cioè “eu” (buono, bene) e “sebomai” (rispettare, venerare).

L’Eusebismo nasce quale sistema morale improntato al rispetto assoluto e incondizionato e fondato su cinque principi:
1) RISPETTO (rispettare l’esistenza di ciò che è altro da sé)
2) POSSIBILITA’ (ripetibilità da parte di n soggetti)
3) EQUILIBRIO (gli interessi coinvolti devono ricevere reciproca soddisfazione)
4) CIRCOLARITA’ (primo principio della termodinamica: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma)
5) NON INTERFERENZA (non si deve interferire con l’esistenza, l’evoluzione o la sopravvivenza di ciò che è altro da sé).

La rappresentazione simbolica dell’Eusebismo è quella di un punto di origine comune (matrice), dal quale tutto ciò che esiste proviene e nel quale torna: una volta separatosi dalla matrice, ogni ente assume una specificità, acquisendo una individualità che verrà mantenuta all’interno del sistema con il quale interagisce. Il cerchio attorno al punto rappresenta quel sistema, all’interno del quale ciascun elemento (punto), pur mantenendosi distinto dagli altri, è ad essi collegato in modo circolare: ogni danno recato al singolo elemento determina un conseguente danno all’intero sistema. Le linee (raggi) che si dipartono dalla matrice verso la circonferenza sono a doppio senso, simboleggiando il continuo divenire e transitare da una condizione all’altra.

La ruota dell’Eusebismo

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