1.
I pregiudizi nella formazione del diritto La storia ha insegnato che qualsiasi conflitto determina un danno e che, pertanto,
l’imposizione degli interessi di uno o di alcuni ad altri è soltanto
apparentemente vantaggiosa: in realtà allorchè un gruppo si arroga
un diritto superiore a quello di altri gruppi, già nell’affermazione
del principio vi è il seme del danno, consistente nell’aver avallato
e perpetuato l’ideale che interessi egoistici possano essere legittimamente
coltivati. L’unica
vera forma di giustizia universale è quella che tende all’equilibrio
di tutto ciò che compone il sistema in cui essa viene applicata: avvantaggiare
gli esponenti di una specie, di una razza, di una cultura o di un sesso non
può rappresentare alcuna giustizia, ma soltanto l’estrinsecazione
di pregiudizi egoistici. Come si
può definire civile o giusta una società che ha bisogno di trovare
analogie e somiglianze per poter affermare il diritto? Questa mentalità,
purtroppo, spinge ad un passaggio obbligato: prima di poter tutelare un gruppo
occorre infatti legittimarlo, assimilandolo a quello dominante (e legiferante). Il vero rispetto, quale manifestazione disinteressata e oggettiva, si contraddistingue per il fatto di essere riconosciuto incondizionatamente e a prescindere dal punto di vista dell’osservatore: le diversità fra soggetti, siano esse formali o sostanziali, possono servire soltanto a determinare le modalità concrete di condotta rispettosa delle specificità di ciascuno. Sarebbe
insomma ravvisabile una aspettativa da parte di ciò che esiste, pur non
essendo classificato come “vivo” in base alle nostre cognizioni
scientifiche, ma passibile di diventarlo e, comunque, meritevole di tutela in
quanto compartecipe della realtà fenomenica, tanto quanto piante, animali
non umani e umani. E’
quindi possibile affermare che l’unico metodo in grado di superare i particolarismi
e i pregiudizi dettati dall’adozione di una prospettiva soggettiva è
quello di riconoscere, per principio, la titolarità di diritti in capo
a tutto ciò che esiste, garantendo un rispetto incondizionato e astenendosi
dall’operare distinzioni che nascono dall’empatia o dalla simpatia
o dall’affezione verso ciò che è più simile o vicino
all’osservatore. Insomma,
anche a voler negare la titolarità di diritti in capo a ciò che,
pur esistendo, non consideriamo “vivo”, saremmo comunque costretti
a riconoscergli rispetto in quanto strumentale rispetto agli esseri viventi.
In conclusione, sia che si intenda adottare una teoria dei doveri diretti nei
confronti di ciò che esiste, sia che si adoperi il principio dei doveri
indiretti, una cosa è certa: è necessario rispettare tutto ciò
che esiste.
3.
Oltre l’umanismo, l’animalismo, il biocentrismo: l’Eusebismo
L’Eusebismo nasce quale sistema morale improntato al rispetto assoluto
e incondizionato e fondato su cinque principi:
1) RISPETTO (rispettare l’esistenza di ciò che è altro da sé) 2) POSSIBILITA’ (ripetibilità da parte di n soggetti) 3) EQUILIBRIO (gli interessi coinvolti devono ricevere reciproca soddisfazione) 4) CIRCOLARITA’ (primo principio della termodinamica: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma) 5) NON INTERFERENZA (non si deve interferire con l’esistenza, l’evoluzione o la sopravvivenza di ciò che è altro da sé). La rappresentazione
simbolica dell’Eusebismo è quella di un punto di origine comune
(matrice), dal quale tutto ciò che esiste proviene e nel quale torna:
una volta separatosi dalla matrice, ogni ente assume una specificità,
acquisendo una individualità che verrà mantenuta all’interno
del sistema con il quale interagisce. Il cerchio attorno al punto rappresenta
quel sistema, all’interno del quale ciascun elemento (punto), pur mantenendosi
distinto dagli altri, è ad essi collegato in modo circolare: ogni danno
recato al singolo elemento determina un conseguente danno all’intero sistema.
Le linee (raggi) che si dipartono dalla matrice verso la circonferenza sono
a doppio senso, simboleggiando il continuo divenire e transitare da una condizione
all’altra.
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La ruota dell’Eusebismo
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