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“Chi parla male pensa male e
vive male”: così ammoniva Nanni Moretti nel suo Palombella
Rossa, sottolineando l’importanza di dare coerenza a parole, pensieri
e azioni e il peso che il nostro modo di parlare ha sul nostro modo
di essere.
Ci sono termini talmente invalsi nell’uso quotidiano da non essere
neppure messi in discussione, eppure in un mondo diverso che cerca quell’evoluzione
alla quale tutti tendiamo (o dovremmo tendere), occorre anche saper
abbandonare gli schemi mentali nei quali non ci riconosciamo più e aprirsi
a parole e idee nuove e più coerenti.
ANIMALI E UOMINI
Biologicamente parlando gli esseri umani appartengono al regno animale
e, se è vero che la definizione “umani” non implica necessariamente
antagonismo rispetto agli altri nostri simili, è pur vero che la locuzione
“animali umani” sottolinea le reciproche identità e aiuta
a riflettere, tutti quelli che non si sono mai posti il problema, sull’equivocità
della distinzione animali/uomini.
E’ opportuno rammentare che il mondo non si divide in uomini e
animali, bensì in animali umani e animali non umani.
PADRONI E… SCHIAVI?
Sul concetto di proprietà sono state e si potrebbero spendere
moltitudini di parole, ma pur senza spingersi troppo in là: tutti
sappiamo che ad un padre corrisponde un figlio, ad un venditore un compratore
e, ad un padrone… uno schiavo. Il concetto di proprietà
collegato agli esseri umani è stato faticosamente eliminato (non
ovunque), ma è perlomeno contraddittorio definirsi e atteggiarsi
a padroni di quegli esseri che si dice di amare e considerare propri
simili, compagni, amici o famigliari: di quale dei nostri amici, infatti,
siamo usi professarci padroni?
Gli animali non sono proprietà (per l’Eusebismo nulla può
esserlo, ma questo è ancora un altro discorso): se pensiamo questo,
non possiamo chiamarci loro “padroni”, bensì, semmai,
loro Amici.
Chissà che, usando un termine più rispettoso, non riusciamo
anche a rapportarci verso di loro con maggiore rispetto, anche in tutti
quei gesti quotidiani di attenzione verso le loro esigenze e non imposizione
o sfruttamento da parte nostra.
PROSCIUTTO, SALAME, FILETTO & CO.
Dietro all’uso di espressioni invalse per designare cibi animali
si cela un essere che aveva un cuore pulsante, un cervello pensante,
occhi per vedere, orecchie per sentire, un naso per odorare e la capacità
di provare emozioni, paura e sofferenza. Una volta Tolstoj, che era
vegetariano, ricevette una parente che mangiava soltanto carne e la
accolse con una gallina viva e un lungo coltello in tavola, invitandola
a provvedere da sé a procurarsi il pasto: purtroppo il distacco
materiale e morale dai metodi di “produzione” della carne
rendono possibile cibarsene a moltissimi che, diversamente, non oserebbero.
La terminologia adottata corrobora simili atteggiamenti, riducendo pezzi
di esseri viventi a sterili definizioni del tutto distaccate da ciò
che descrivono: probabilmente molti degli evoluti occidentali resterebbero
sgomenti se, nel bel mezzo di un lussuoso party, un invitato chiedesse
di passargli altro “muscolo della zampa posteriore di un cadavere
di maiale”, mentre nessuno è turbato dalla richiesta di
un’altra, innocua, “fettina di prosciutto”.
POSSIBILE, PIACEVOLE E GIUSTO
Il fatto che qualcosa sia possibile, non la rende automaticamente giusta:
ad esempio, il fatto che un albero non sia in grado di opporsi rende
automaticamente giusto che un essere umano lo abbatta? Il fatto che
un leone si nutra di una gazzella è giusto? E’ naturale,
certo, ma si può attribuire una qualificazione morale a questo
atto? Affermare che qualcosa sia giusto non significa limitarsi a dire
che “può” accadere, bensì che “deve”
accadere, poiché se non accadesse si realizzerebbe un’ingiustizia.
Il concetto di giustizia umana non può essere assimilato banalmente
a quello di giustizia naturale, poiché il metro di giudizio di
ciò che è giusto in natura si basa sull’equilibrio
e non sul fatto che il leone sopravviva e la gazzella perisca, o viceversa.
Quando una persona che si ciba di carne afferma che è ciò
giusto, intende realmente dire che, prima di scegliere se farlo o meno,
ha vagliato tutte le implicazioni morali sottese, e quindi ha deciso
di farlo, oppure sta semplicemente attribuendo uno spessore morale alla
piacevolezza che gliene deriva?
Prima di affermare che qualcosa che facciamo sia giusto, dovremmo forse
domandarci se abbiamo deciso di farlo pervasi dall’ideale di giustizia,
oppure, banalmente, per trarne piacere.
VITA, NON VITA E MORTE
Cosa è vita, cosa non lo è? E’ forse vita un virus?
Dubbio della scienza del ventunesimo secolo! Dubbio che nel decimo secolo
la scienza non avrebbe potuto nemmeno porsi, visto che non esisteva,
ed altresì dubbio che non avrebbe potuto porsi la scienza del
XVI secolo, che non era in grado di osservare il microscopico. Quante
volte ancora occorrerà spostare l’asticella di ciò
che è vita e di ciò che è non vita? Lo spirito,
nella cui esistenza la maggior parte degli uomini confida, è
vita? Quali luoghi materiali può occupare uno spirito? Se lo
spirito è energia, allora è anche materia, ma non tutta
la materia è da noi osservabile: i buchi neri, per esempio, come
la materia oscura, non sono visibili, eppure nessuno ritiene invasati
visionari gli scienziati che da decenni li studiano.
La scienza e le religioni occidentali ci hanno abituati, da un lato,
alla negazione di ciò che trascende l’osservabile e, dall’altro,
alla riconduzione di tutto il trascendentale a credenze precostituite,
portando paradossalmente a conclusioni analoghe circa il fenomeno della
“morte”: ciò che perfino gli antichi conoscevano
e riconoscevano come passaggio, transizione, cambiamento, nella tradizione
occidentale degli ultimi 2 millenni è divenuto cessazione.
Definire morte un passaggio di stato contribuisce ad una falsa rappresentazione
dell’esistenza: sarebbe come affermare che un sommozzatore, abbandonato
lo scafandro che gli era necessario per immergersi nelle profondità
marine, non avrà mai più possibilità di immergervisi
nuovamente, e compiangerlo per questo!
SE’ E ALTRO DA SE’
Con una terminologia che soltanto oggi l’occidente sta riscoprendo,
millenni fa Empedocle aveva definito “Uno” l’universalità
delle cose che ci circondano e di cui siamo parte: benchè apparentemente
così diverso, tutto ciò che osserviamo (e anche ciò
che non siamo in grado di vedere), ci appartiene così come noi
apparteniamo ad esso.
La differenziazione e la specificazione sono soltanto funzionali e apparenti:
in realtà non esiste “voi”, né “loro”,
ma soltanto “noi”.
E’ molto difficile abbandonare i luoghi comuni nei quali siamo
immersi e adottare una differente prospettiva, non più di contrapposizione,
ma di collaborazione, non di estraniazione, ma di appartenenza; tuttavia,
quanto più spesso riusciamo a pensare a “noi” anziché
a “me vs. gli altri”, tanto più vicini saremo alla
vera natura delle cose.
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